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IL PERSONAGGIO

Sinatra, una storia ricchissima
di luci, ombre e amori

Esce in Usa "Frank", la più dettagliata biografia mai realizzata su "The Voice".

Ottocento pagine piene di testimonianze di amici, colleghi, parenti
di ANTONIO MONDA

NEW YORK - A dodici anni dalla scomparsa di Frank Sinatra esce negliStati Uniti una biografia di ottocento pagine, intitolata Frank, the voice, che cerca di restituire un ritratto completo di un cantante dal talento straordinario ed una personalità con molti lati oscuri. L'autore del libro, James Kaplan, lo descrive come un artista consapevole della propria grandezza, che trasformò le proprie insicurezze in aggressività, e reagì in maniera spregiudicata all'asprezza di sfide durissime.

Era nato ad Hoboken, una cittadina del New Jersey che vede da lontano i grattacieli di Manhattan, da padre siciliano che alternava il mestiere di pompiere a quello di pugile, ed una madre ligure, un'attivista del partito democratico che contribuiva ai magri introiti familiari procurando aborti clandestini. Fu un pessimo studente e non terminò mai il liceo, ed era ancora adolescente quando venne arrestato per essere diventato l'amante di una donna sposata, cosa che all'epoca era considerato un reato. La celebre foto segnaletica, relativa ad un arresto successivo, è dovuta invece alla rissa con una fidanzata che attaccò violentemente colei che divenne la prima moglie Nancy. Da piccolo il suo soprannome era "Scarface", per via di una lunga cicatrice sul lato sinistro del volto. Sono molte le leggende a riguardo, ma Kaplan accredita l'idea benigna di un taglio procurato dal forcipe al momento della nascita.

Uno dei momenti più pruriginosi del libro è quello relativo alle prestazioni sessuali:
Ava Gardner, che diventò la seconda moglie, parlò pubblicamente del fatto che fosse superdotato, e il maggiordomo scrisse nel suo libro di memorie che era incaricato di acquistare mutande disegnate appositamente su misura. Ma il libro ha anche molti passaggi interessanti per comprendere la costruzione di un mito: a cominciare dall'idea del soprannome "The Voice", che il geniale publicist George Evans riuscì ad imporre su "Scarface". Fu lui che nel momento dell'ascesa del cantante assoldò ragazze che urlavano istericamente ad ogni attacco di canzone. E fu sempre Evans che fece circolare la voce che avesse regolarmente finito le scuole e che la madre in realtà fosse un'eroica infermiera della Croce Rossa.
Come racconta Il Padrino, cambiandone il nome in Johnny Fontane, Sinatra non esitò a rivolgersi ad amici mafiosi per sciogliere il contratto che lo legava all'orchestra di Tommy Dorsey: Kaplan porta la testimonianza di Jerry Lewis, il quale disse che fu il boss Willie Moretti a fare a Dorsey un'offerta che non poteva rifiutare, consentendo a Sinatra di decollare per una carriera che non ha eguali nella storia della musica popolare americana. Moretti aiutò ancora una volta Sinatra nel momento più difficile della carriera, assicurandogli dei ruoli cinematografici che lo portarono a vincere un Oscar in Da qui all'eternità.

C'era amicizia, da parte del mafioso, ma anche riconoscenza: Sinatra si era esposto in prima persona presenziando aduna riunione di boss all'Avana, e la sua presenza venne scoperta da Robert Ruark, un giornalista che fece lo scoop della sua vita, parlando dell'incontro tra The Voice e Lucky Luciano. Kaplan rivela che in quel periodo di crisi Sinatra tentò tre volte il suicidio: la prima dopo una lite furibonda con la Gardner, la seconda quando apprese che lei aveva deciso di abortire il figlio concepito dalla loro unione, la terza dopo aver visto un enorme poster del rivale Eddie Fisher. Un nuovo arresto avvenne proprio dopo una lite con la Gardner, e fu il solito publicist a mettere le cose a tacere corrompendo i giornalisti accorsi sul luogo. In quel periodo il capo dell'FBI J Edgar Hoover aveva su Sinatra un dossier di 1275 pagine, ma è sintomatico della cultura americana come venga separata totalmente la stima incondizionata per l'artista dal giudizio sull'uomo.

Furono molti i cambiamenti di campo: finanziò per gran parte della vita il partito democratico, ma fece campagna per l'amico Ronald Reagan quando si candidò come presidente. E furono poche le battaglie perse, come il tentativo di dissuadere la terza moglie Mia Farrow di interpretare Rosemary's Baby. Le fece arrivare i documenti per il divorzio sul set, mentre girava la scena in cui scopriva di aver partorito il figlio del diavolo.

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10.02.2011
Psycho Pynchon, follie e figli dei fiori
tutto il fascino dei perdenti


"Vizio di forma" è l'ultimo romanzo dello scrittore che chiude la sua trilogia hippie raccontando le idee, le manie e le atmosfere dell'America degli anni Settanta
di SANDRO VERONESI


“Pensavo / di avere incontrato un uomo / che diceva / di conoscere un uomo / che sapeva / cosa stava succedendo / Mi sbagliavo / era solo un bambino / che rideva / nel sole". È il testo di un pezzo di David Crosby, Laughing, tratto dal suo leggendario album intitolato If I could only remember my name diventato un manifesto della cultura hippie - della sua caleidoscopica indeterminatezza, della supremazia che in quegli anni aveva instaurato del mondo insaturo su quello saturo, della confusione sull'ordine, della paranoia sulla ragionevolezza. L'album è del 1971: Paura e disgusto a Las Vegas, di Hunter Thompson, struggente ammissione di sconfitta da parte di uno dei più radicali interpreti della cultura flower-power, è stato scritto e pubblicato in quello stesso anno. È l'anno del processo alla Famiglia Manson, ed è anche l'anno in cui Thomas Pynchon ha deciso di ambientare il suo ultimo, meraviglioso romanzo, Inherent Vice (Vizio di forma, Einaudi, traduzione di Massimo Bocchiola, pagg. 470, euro 20), completando così, col tassello centrale, la propria trilogia hippie, dopo L'incanto del lotto 49, pubblicato e ambientato nel 1966, e Vineland, pubblicato nel 1990 ma ambientato nel 1984.

Come sempre quando scrive Pynchon, questo romanzo pulsa di un'incessante, entropica connessione tra il prima e il dopo, tra il reale e l'immaginario, tra l'ignoto e il conosciuto, pur accomodandosi stavolta nelle forme assai attraenti e insolitamente "facili" di un hardboiled psichedelico - tutto dark women, anime perse e dialoghi esilaranti. E come sempre quando scrive Pynchon, è inutile cercare di dar conto della trama: i personaggi sono la trama, a partire dal protagonista, l'investigatore privato Larry "Doc" Sportello, un perdente della stirpe degli Zoyd Wheeler, dei Benny Profane, dei Tyrone Slothrop - cioè perdenti che, per dirla con Sartre e con la sua concezione del romanzo, vincono. Sportello, del resto, sembra una versione freak di Philip Marlowe: ex-surfista, solitario, vive ancora sulla spiaggia e chiama ancora "terraferma" il resto della città, fuma spinelli in continuazione, non ha interesse per i soldi, ama non riamato, rimane incrollabilmente puro nell'attraversare qualsiasi sporcizia e risulta invulnerabile al crimine violento in mezzo al quale pure si ritrova a sguazzare.

È lui la sonda che Pynchon utilizza per recuperare dalle profondità della storia quell'onda hippie che per un quindicennio ha rappresentato la speranza, prima di venire cancellata dalla risacca conformista che sembrava avere sommerso. Sportello viene innescato da una sua ex-fiamma, Shasta, che gli chiede di indagare sulla scomparsa del palazzinaro per il quale lo ha mollato, e così, per puro amore non corrisposto, per pura debolezza maschile, si mette a cercar di comporre quello che, per usare un concetto a Pynchon certamente caro, potremmo chiamare il "mosaico del dubbio", e che contiene rapimenti, ricatti, estorsioni, vendette, omicidi, traffico di droga, corruzione, ma anche antichi continenti perduti, telepatia, occultismo, lisergismo, zombie, surf-rock, dipendenza televisiva e cibo macrobiotico; e così facendo si ritrova a fluttuare nella magica "nebbia del drogato" che tutto apparenta e rende incerta qualsiasi storia - nella quale nebbia si dissolve anche il romanzo stesso, in un finale indimenticabile.

Come negli altri capolavori di Pynchon, si procede per accumulo. E "procedere", qui, è inteso come puro movimento dall'indeterminatezza verso il caos - non certo verso il disvelamento dei misteri; laddove però, come se ogni parola cliccasse sull'icona "ingrandisci" di una specie di Google Time Machine, la California del sud del 1971 emerge sempre più a fuoco, in una pazzia di dettagli straordinariamente vivi e definiti - topografici, commerciali, musicali, urbanistici, architettonici, nautici, giudiziari, politici, religiosi, sportivi, culturali, controculturali e sottoculturali, così che la citata menzione del continente sprofondato - Lemuria, la versione Pacifica dell'Atlantide di Platone - diventa il simbolo che accompagna la strepitosa opera di risveglio mnemonico di quel mondo perduto nel quale la purezza andava a braccetto con la sporcizia, l'ispirazione con il vomito e l'innocenza con il delirio.

Non a caso Shasta, la ragazza fatale, porta il nome della montagna del nord della California dove la leggenda vuole che i sopravvissuti di Lemuria si siano rifugiati e nascosti come sorci in buche e cunicoli sotterranei - e puri, tuttavia, e incontaminati come palle di luce. Una luce che illumina ogni angolo della città confusa e maledetta attraversata da Sportello nella sua ricerca, una Los Angeles che è la summa di tutte le Los Angeles conosciute - mai così completa, sterminata, e vera; e che fa risplendere ogni singolo volto di quel 1971, tanto che alla fine sembra di averli visti proprio tutti, quei volti; di aver riconosciuto per esempio quello di Hunter Thompson, sì, intento a sparare alle iguane lungo l'autostrada per Las Vegas, o di David Crosby, che canta insieme a Graham Nash, o - clicca, ingrandisci - del tenente Colombo, che attraversa un incrocio sul Santa Monica Boulevard a bordo del suo catorcio, o dello stesso Pynchon, eh sì - clicca, ingrandisci - , proprio lui, malgrado nessuno l'abbia mai visto, è lui - ingrandisci - , dentro quella casa di Gordita Beach, seduto al tavolino - ingrandisci - , è lui per forza, intento a battere sui tasti della macchina da scrivere, perché in cima alla pila di fogli vicino a lui c'è scritto - clicca, ingrandisci - eh sì, c'è scritto Gravity's Rainbow - il suo capolavoro, il romanzo destinato a uscire e sbalordire il mondo tra due anni, trentotto anni fa, nel '73...

Ma forse non era lui, forse mi sbaglio. Forse era solo un bambino che rideva.
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10.02.2011
LIBROS

Lo que queda de nosotros

MARÍA JOSÉ OBIOL

Todo comienza cuando la cama tiembla y el hombre se despierta asustado. A su lado la mujer duerme, aunque el cuerpo de ella no deja de estremecerse y cuando por fin se aquieta, parece que no respira. Así se inicia Lo que queda de nosotros, una ceremonia de transición, un camino que recorre la vejez hasta la muerte. Esta novela de Michael Kimball (Michigan, 1967) es una narración especial, pues habla con luminosa sobriedad no tanto de la memoria de quienes acompañan a sus protagonistas en el tiempo, sino de aquellos objetos cotidianos que van distanciándose de ellos, como despidiéndose. Hablan las voces de una pareja de ancianos.

El hombre reconstruyendo, sabiendo de su desconcierto pero también de su entereza y pragmatismo para asimilar ausencias. La mujer, con voz que viene de lejos, confortando al hombre, juntándose con él en los sueños. Y está el nieto que, siendo adulto, rememorará el peregrinaje último de los ancianos. Lo que queda de nosotros no resulta deprimente ni reiterativa. Sí sobrecogedora, pues avanza en la lectura afianzándose el debe y el haber de un inventario de gestos que contiene presencia y ausencia. Kimball establece una intensa correspondencia entre la agilidad del cuerpo y su desobediencia. Hay emoción y estimulante escritura en ese relato del miedo pequeño a las cosas de siempre y la necesaria convivencia con el espacio propio. Lo que queda de nosotros es hermosa e intensa y su transparente e incisiva neutralidad hace más relevante el desconcierto. Es una novela contada con mucho talento.

Lo que queda de nosotros
Michael Kimball
Traducción de Puerto Barruetabeña Díez
Tusquets. Barcelona, 2010
170 páginas. 16 euro

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25/12/2010
Libros

La música de Walcott

ÁNGEL RUPÉREZ

A Derek Walcott The Sunday Times le pidió un poema cuando Obama era aspirante y otro cuando ganó las elecciones. Walcott cedió a semejante petición e incluyó los dos poemas de ocasión en este libro cuyo interés, sin embargo, no está en esa periferia externa, mediática y banal (además de muy bien pagada), sino en el centro de la existencia de su autor, marcada por el sentimiento opresivo de la vejez, el presentimiento de la muerte, el temor a la declinación de sus dotes poéticas, y las secuelas, a veces devastadoras, del amor.
La tendencia más natural de Walcott es la recreación sensitiva de la realidad, que adquiere una densidad penetrante, muy especialmente cuando de su isla natal antillana se trata. Una especie de aluvión de percepciones se acumula en sus poemas, creando estratos que se superponen y dan la sensación de que lo que existe tiene una realidad añadida, como una novedad que la alumbra y deslumbra a la vez. La necesidad, casi compulsiva, de absorber el mundo es al mismo tiempo una necesidad de reinventarlo, pero no desfigurándolo, barroquizándolo, fantaseándolo, sino acatándolo, aceptándolo en su riqueza y diversidad, proclamando así su soberanía óntica, su más intensa

Autoafirmación
Eso vale para todos los escenarios -Italia, España- pero muy especialmente para el más amado de todos, el suyo propio, el de su isla natal, el de su reino absoluto. Volver al espacio primigenio del descubrimiento del mundo: he ahí el espacio gravitatorio de este libro, del que depende su más cautivadora fascinación. Pero, junto a ese "ideal perpetuo del asombro", como dice en uno de sus poemas, aparece la muerte, la suya propia, presentida, inminente, y la de sus amigos desaparecidos (el muy amado Joseph Brodsky, entre otros), de tal modo que a la emoción celebrativa, puro entusiasmo, se une la emoción de la pérdida irreversible, pura ansiedad que reconoce el esplendor del mundo al mismo tiempo que su más oscuro reverso.

La mezcla es sabia y fulgura con tensión comedida, sin aspavientos, de manera epicúrea, integrándonos a todos en ella, en un rito íntimo de perfecta piedad y belleza: "Antes de que ellos mueran [autores muy queridos y valorados por el autor, aunque no por la crítica] debo hacer en mi cabeza / sitio para un santuario con luciérnagas y estrellas". Walcott es un virtuoso de la métrica, y esa música de pies marcados y rimas sin fin se pierde en esta noble y esforzada traducción, que fracasa y triunfa a la vez, como todas las buenas traducciones que se las tienen que ver con huesos duros de roer.

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25/12/2010
CÁNCER DE MAMA

La axila pierde protagonismo en
el cáncer de mama

La supervivencia es la misma aunque
no se extirpen los ganglios afectados

Un amplio estudio revoluciona una
técnica que se parctica desde hace 100 años

Los expertos son cautos a la hora
de decidir si cambiará la práctica clínica

Patricia Matey, Madrid

El planteamiento supone un cambio profundo en el abordaje del cáncer de mama. Tras 100 años en los que los cirujanos han estado extirpando los ganglios linfáticos de la axila afectados en mujeres con tumores mamarios, convencidos de que así aumentaban los años de vida de sus pacientes y el tiempo libre de enfermedad, un nuevo estudio acaba de poner en entredicho esta práctica médica habitual en algunas pacientes.

Tal y como publica el último número de 'Journal of the Medical Association', extraer los ganglios cancerosos de debajo del brazo no aporta ningún beneficio a las pacientes y sí un elevado número de complicaciones, como infecciones y linfedema. Esta acumulación de edema está producida por una obstrucción en los canales linfáticos e incapacita la vida del 10% de las mujeres que se realizan una mastectomía radical con extirpación de los nódulos.

De hecho, en la nueva investigación, las mujeres que tenían afectado el ganglio centinela (el primero de la cadena nodular debajo del brazo) u otro ganglio más en las que no se procedió a su extirpación tuvieron las mismas tasas de supervivencia que aquéllas a las que se les realizó el vaciamiento de la axila. Armando Giuliano, del Instituto del Cáncer John Wayne en el Centro de Salud St John's, en Santa Mónica (EEUU) y autor principal del 'atrevido' ensayo aclara que los nuevos hallazgos, junto con otros similares de estudios anteriores, deberían cambiar la práctica médica de muchas pacientes.

De hecho, al parecer, algunos centros estadounidenses, como el Memorial Sloan-Kettering Cancer Center en Manhattan, han cambiado su práctica clínica en las mujeres que se pueden beneficiar de esta opción más conservadora a raíz de esta nueva información.

"El hospital dejó de realizar el vaciamiento axilar en septiembre porque conocía los resultados del estudio. Pero el cambio más generalizado puede llevar tiempo, porque la creencia de que es más beneficioso eliminar los ganglios está profundamente arraigada". De hecho, su extirpación en pacientes con carcinoma infiltrante de mama sí es un acto quirúrgico universalmente aceptado, dado que siempre se ha considerado que los ganglios linfáticos de la axila constituyen un escalón en la progresión de la enfermedad.

Cada vez más conservadores
Laura García Estévez, directora de la Unidad de Patología Mamaria y Ginecológica del Centro Integral Oncológico Clara Campal del Hospital de Madrid Norte Sanchinarro, reconoce a ELMUNDO.es que el "estudio es muy interesante y que, probablemente, cambie la práctica clínica en muchas mujeres. No obstante, ésta sólo puede modificarse en los centros que dispongan de unidades de mama con equipos multidisciplinares".

Para ella, "la evidencia científica aportada se suma a la tendencia de los últimos años que trata de ser cada vez menos agresivo en el abordaje de los tumores mamarios. Además, ahora hay tratamientos muy eficaces. Pero lo que constata, sobre todo, es que la axila no es tan determinante en el tratamiento de este cáncer como siempre se había creído".

Pero este nuevo enfoque terapéutico no se puede aplicar a todas las pacientes, sólo a las mujeres cuya enfermedad y tratamiento cumplan con los criterios establecidos en el estudio. En él, participaron 891 voluntarias de 115 centros con una edad media de 50 años que fueron seguidas a lo largo de 6,3 años. La mayoría de ellas tenía tumores con receptores de estrógenos positivos en estadio temprano (fase T1 o T2, es decir, menores de 2 centímetros), con uno o más ganglios afectados, sin metástasis y que no habían sido sometidas a mastectomías radicales.

Así, los científicos dividieron a las mujeres en dos grupos. Mientras que a uno de ellos sí se les realizó el vaciamiento axilar, en el otro no se procedió a la extirpación de los ganglios. Todas fueron sometidas a una tumorectomía (resección del tumor) y a radioterapia. Además, y según la decisión del oncólogo, recibieron terapia sistémica adicional (radioterapia, quimioterapia o terapia hormonal).

"El objetivo inicial fue reclutar a 1.900 mujeres pensando que la mortalidad final sería de 500, pero el ensayo se suspendió precipitadamente porque la mortalidad fue más baja de la esperada", reconocen los autores de la investigación.

Los datos revelan que el 90% de las participantes de ambos grupos sobrevivió por lo menos cinco años. Las tasas de recurrencia del tumor en la axila también fueron similares, menos del 1%.

Pese a los datos positivos, la doctora Estevez reconoce algunas limitaciones al trabajo, como "no conocer exactamente quiénes de ellas recibieron quimioterapia, o que el estudio no se relizara finalmente con las 1.900 participantes, como se diseñó en un principio".

www.elmundo.es/

10/02/2011

Parejas Gais

Sin ellos no

ROSA MONTERO

Hace algunos años leí un interesante reportaje sobre el tormento añadido que la vejez podía suponer para los homosexuales: los asilos de ancianos no admitían parejas gais y muchas personas se vieron obligadas a separarse para siempre de sus compañeros de toda la vida, justo cuando esa vida se hacía más necesitada y más precaria. La ley del matrimonio homosexual ha venido a solucionar también esto, lo cual no es un detalle baladí.

Recordé de algún modo esta historia hace unos días, viendo un programa de televisión en un hotel latinoamericano. Era un documental inglés y entrevistaban a una octogenaria de rostro arrugado, cabellos desbaratados y ropas muy modestas, pero que se expresaba con total lucidez y precisión. Ya no podía seguir viviendo sola e iba a ser trasladada a un asilo de ancianos; pero para ello tendría que abandonar a sus dos perritos, unos animales canijos, greñudos y mestizos que se apretujaban contra la mujer como dos bolas de pelo temblorosas.

A saber cuál sería el destino previsto para los pobres bichos; en cuanto a la anciana, la separación suponía la pérdida de sus seres más queridos. "Si me quitan a mis perros, no quiero vivir. He estado reuniendo pastillas. Primero se las daré a ellos y luego me mataré yo". Lo decía con perfecta contención británica, sin melodramatismo ni aspavientos. No pude terminar de ver el documental y no sé qué fue de la mujer, pero no consigo olvidar su desolación. Me temo que muchos pensarán que suicidarse por un perro es de chiflados, pero sé que otros entenderán la absoluta indefensión de esos ancianos que se ven obligados a abandonar a quienes son en realidad su única familia. Esa mutilación afectiva, esa soledad y ese desgarro. Es una tragedia, doblemente trágica por incomprendida. Sé que es complicado, pero, ¿no podría haber asilos que admitan animales?

http://www.elpais.es/
23/11/2010


  A la vejez, alegrías

La coreana Yun Junghee compone una inmensa interpretación como la abuela protagonista de la prodigiosa 'Poesía'

GREGORIO BELINCHÓN, Madrid

Yun Junghee tiene uno de esos currículos que apabullan. Debutó en el cine en 1966 y desde entonces hasta su retirada se hinchó a ganar premios. Tras una década jubilada, el director Lee Chang-dong, ex ministro de Cultura de su país, la convenció para volver con Poesía, en la que encarna a una anciana que cuida de su nieto, un chaval con tan malas compañías que junto a varios compañeros de colegio violan y empujan al suicidio a una alumna. Mientras intenta lidiar con tamaño problema, la mujer descubre que tiene un principio de alzhéimer y se apunta a unos cursos de poesía.

El prodigioso y sutil entramado de Poesía le reportó el premio al mejor guión en Cannes, y durante el certamen el nombre de Yun Junghee sonó para el galardón a la mejor actriz. "A mí, sinceramente, no me provocó ninguna decepción no obtenerlo", asegura durante una entrevista en el festival de San Sebastián, un certamen que visitó aprovechando que su marido, director de orquesta, actuaba en Valencia. "El premio está marcado por la suerte. Tanta gente me ha felicitado después de ver la película que ya de por sí todo eso es un premio".

¿Por qué salió de su retiro de oro para rodar Poesía? Puede parecer muy extraño, pero después de leer el guión mi marido y yo, él me dijo: 'No es que se parezca a ti, es que como tú. Eres tú'. Así que creo que he expresado mi personalidad". ¿Y el guión? "Desde luego. En el filme hay una violación que nadie debe descubrir. Es una inmoralidad, y un autoengaño de la sociedad, y para mí el motor del filme está en sacar a la luz esta mentira". De acuerdo, pero en Poesía se habla, y mucho, del olvido: el profesor de poesía reconoce que es un arte en desaparición, los padres de los alumnos desean que nadie recuerde lo que ha pasado, la protagonista empieza a sentir en su vida el declive de un alzhéimer incipiente... La sociedad actual olvida muy rápidamente las cosas. "Cierto. En Corea todas las profesiones artísticas tienen muy poca duración... La gente te olvida rápidamente. Hace muchos años yo grabé poesía con música de mi marido, ¿y quién se acuerda de eso? Este mundo va cada vez más rápido y olvida antes. Por eso tenemos que esforzarnos en recordar". Peor aún le va al mundo del cine: o triunfas a la primera o nadie te hace caso. "No sé qué es más complicado, si triunfar o mantenerse".

El alzhéimer de la protagonista marca sutilmente toda la trama, con unas pinceladas de humor que nunca sabemos si nace de su carácter o de la enfermedad. "Mija Yang es muy risueña. Le preocupan otras cosas y no su enfermedad. Yo, al menos, no tuve dudas sobre cómo afrontarlo. En la película, ella va a un karaoke a negociar que le den dinero, y de forma casi absurda, acaba cantando en mitad de toda la tensión. Es mi secuencia favorita, porque aclara hasta qué punto busca su felicidad y la encuentra en sitios a priori oscuros". Y Yun Junghee, sacada a su vez de su olvido, sonríe beatífica.

www.elpais.es

26/11/2010